Cantù torna in Serie A dopo 4 anni, il regalo di coach Nicola Brienza alla sua città: “Era un sogno talmente grande che avevo quasi paura a pensarci”


“Per Cantù, per la mia città”. Tornare alle origini per portare a termine una sfida dopo quattro anni – e 1946 giorni – di illusioni e tentativi andati a vuoto. Nicola Brienza ha trascinato Cantù fuori da un limbo chiamato A2 per tornare sul gradino più alto del basket italiano. “Una mela smembrata che si è unità perfettamente” racconta l’allenatore a ilfattoquotidiano.it. Tra metafore e senso di appartenenza, una scalata “alla Pantani”.
Una stagione lunga e intensa. Mentalmente, quanto è stata dura? I playoff sono stati estremamente massacranti. La tensione è sempre molto alta: nel momento in cui hai il picco di adrenalina – come accaduto negli ultimi giorni – poi sei più tranquillo, ti rilassi e allora hai il tempo di ripensare alla stagione. Siamo stanchi, ma chiaramente contenti: immaginare e ricordare dove siamo partiti esattamente un anno fa e capire dove siamo arrivati a oggi è incredibile, posso dire che di acqua sotto i ponti ne è proprio passata tanta.
Ha sempre avuto la convinzione di poter arrivare al traguardo finale? Onestamente sono sempre stato convinto che saremmo tornati in Serie A, ma lo dico senza spavalderia: vedendo quotidianamente la squadra conoscevo le problematiche e dove queste nascevano. Il tifoso vede il risultato, ma noi – intesi come allenatori e staff – abbiamo mesi di lavoro all’interno dei quali hai una percezione di come stanno andando le cose, conosci gli umori dei giocatori e quello che fanno. Proprio per questo non ho mai avuto dubbi. Poi avremmo anche potuto perdere ma non perché non eravamo pronti. Anche nel momento in cui abbiamo perso cinque partite consecutive – che ci hanno di fatto condizionato la corsa al primo posto – io sapevo esattamente il motivo per cui non riuscivamo a vincere. In quel momento siamo stati bravi a mantenere il focus.
Il Nicola bambino (e canturino) si sarebbe mai immaginato di vincere qualcosa per la sua città? Quando ero bambino il mio sogno era giocare per questi colori: andavo al Pianella la domenica, vedevo i campioni della Serie A che si allenavano prima di me, per cui avevo quel sogno. Quando poi ho iniziato a fare questo lavoro – quindi parliamo di più di vent’anni fa – l’idea di poter regalare qualcosa alla mia città era talmente lontana e così grande che avevo quasi paura a pensarci. Oggi ci sono riuscito: è un vanto che potrò dire di avere per tutta la vita.
Ha avuto la possibilità di allenare giocatori che hanno vinto tanto. Professionalmente e umanamente, cos’ha imparato da loro? Quanto è stato stimolante guidare questo gruppo? Quella di quest’anno è stata una sfida sotto tutti i punti di vista: era la prima volta che avevo a disposizione un roster così importante sia in termini di lunghezza che in termini di esperienza/qualità; in tutte le altre situazioni in cui ho lavorato – da un certo punto di vista – avevo dei roster ‘un po’ più da scoprire che da gestire’. Il gruppo di quest’anno mi ha dato tanto: quando alleni giocatori di questa caratura devi essere bravo a rubare delle situazioni e delle loro idee frutto di un vissuto importante. Al tempo stesso, io come allenatore, devo tenere ben salda la squadra: loro si sono lasciati guidare, e io l’ho apprezzato molto.
In questa annata vincente, quanto sono state importanti le persone che hanno lavorato “dietro le quinte”? Io sono stato fortunato nel trovare e scegliere qui a Cantù persone che mi hanno seguito e accompagnato tutto l’anno. C’era la quotidianità in cui le figure di Michele Carrea, di Mattia Costacurta e di Matteo Cara (lo staff tecnico) sono state fondamentali: siamo stati come una mela smembrata che si è avvicinata e si è costruita perfettamente. Poi c’era lo staff di campo capitanato da ‘Sam’ Bianchi e lo staff che io definisco di trasferta in cui veniva il nostro fotografo e social media manager Walter Gorini e l’addetto stampa Andrea Brenna. Loro hanno avuto la capacità di inserirsi in un contesto che durante la settimana lavorava parallelamente al loro: hanno reso i nostri viaggi piacevoli perché si è creato un rapporto che è andato oltre l’aspetto professionale. La squadra ha percepito questo clima di condivisione: questo rapporto ci proteggeva a vicenda anche nel momento in cui le cose non andavano come avremmo voluto.
Tolta la promozione contro Rimini, qual è stato il momento più alto della stagione? La vittoria allo scadere contro Cividale grazie alla tripla di Valentini ci ha tolto quell’ansia da prestazione che avevamo addosso in un periodo in cui non riuscivamo a vincere. Però, paradossalmente, il momento più alto della stagione è stata la sconfitta a Udine: fu una partita bellissima. Chiaramente perdere non è mai bello, ma quella è stata la partita della consapevolezza perché noi eravamo in ripresa dopo un momento negativo e siamo andati ad affrontare una squadra in grande fiducia e prima in classifica. Tornai dal PalaCarnera consapevole di essere finalmente un lontano parente di quello che eravamo dieci giorni prima. La progressione di quelle settimane è stata perfetta: usciti dal periodo negativo contro Cividale, giochiamo la miglior partita della stagione a Udine e poco dopo vinciamo la Coppa Italia.
Quale partita, invece, vorrebbe rigiocare? Contro Pesaro (90-67). Io ragiono sempre su come perdiamo le partite e cerco di capire da dove nasce ogni sconfitta: in quella situazione siamo stati poco presenti mentalmente. È stata la gara dove a mente lucida pensi: ‘oggi abbiamo fatto veramente schifo’.
A chi dedica questo successo? A tutta la mia famiglia. Sono sempre vicini anche quando sono fuori casa, ma loro hanno subito molto di più i miei up & down quotidiani. Quando vivi sotto lo stesso tetto la mattina vedono se dormi male, se sei nervoso più del solito. Loro sono sempre presenti e sono sempre disposti ad ascoltarmi, a tirarmi su di morale quando ce n’è bisogno. E non è scontato.
Si immagini questa stagione come un film: un titolo, una copertina e gli attori protagonisti. Indubbiamente il titolo è “La risalita”. Per la copertina mi immagino una strada di montagna in salita e la gente che ti sta vicino e ti spinge. Sono sempre stato un grande appassionato di ciclismo: la cosa più bella è proprio il calore dei tifosi che aspettano tutti, ma davvero tutti. Non solo il primo. Mi piace immagine i nostri Eagles (la curva di Cantù) su questa strada che non ci fanno mancare il loro supporto. Gli attori protagonisti alla fine sono i miei ragazzi: come in ogni sport, tutti vorremmo essere quel giocatore che ti risolve la partita. Io regista? Mi limito a spingere e a spronare chi scende in campo, ma la vera fatica spetta a loro. Per questo, non posso fare altro che ringraziarli.
Il Fatto Quotidiano